Per una parità dei sessi a beneficio di tutti e tutte
La parità dei sessi a livello costituzionale è una realtà dal 1981, anche se la legge sulla parità è entrata in vigore nel 1996; eppure resta ancora molto da fare proprio per raggiungere la parità effettiva. Nonostante l’articolo sulla parità stabilisca che «uomo e donna hanno diritto a un salario uguale per un lavoro di uguale valore» infatti, la quotidianità dice che il cosiddetto «salario mediano» delle donne è inferiore del 12 per cento rispetto a quello degli uomini. Una parte considerevole di questa disparità non è giustificabile in termini di esperienza sul lavoro, di formazione scolastica o professionale e neppure di posizione gerarchica, ma solo con il genere. Questa disparità poi, si riflette inevitabilmente anche sulle assicurazioni sociali ed in particolare sulle rendite pensionistiche. Ma non solo.
Affinché si possa realizzare la parità infatti, servono dei passi concreti per migliorare la conciliabilità tra famiglia e lavoro, passando anche da una migliore ridistribuzione del lavoro di cura dei figli e dei lavori domestici, ma pure dall’indispensabile mutamento culturale che metta fine agli stereotipi di genere. La conciliabilità, è bene ribadirlo, non concerne solo le donne: è nell’interesse della società e dell’economia non confinare metà popolazione nella sola sfera domestica, ma garantirne una partecipazione attiva. Le disparità di genere nella società e nel mondo del lavoro hanno infatti un impatto di non poco conto sull’economia globale, con un costo in termini di reddito di circa 12.000 miliardi di dollari, pari al 16 per cento del PIL mondiale, come ha calcolato il Centro per lo sviluppo dell’OCSE, in uno studio pubblicato in occasione della giornata della donna del 2016. A livello svizzero poi il lavoro gratuito (la cura dei figli, degli anziani, i lavori domestici), sempre nel 2016, è stato valutato in 40 miliardi di franchi.
Queste disparità tra i sessi, oltre a rendere difficile se non addirittura ad impedire l’accesso delle donne a posizioni professionali superiori, si traduce anche in una sorta di «femminilizzazione» della povertà, soprattutto a livello pensionistico, proprio perché le donne si dedicano alla cura dei figli e ai lavori domestici gratuitamente, rinunciando così ad una attività lavorativa remunerata. Una rinuncia che troppo spesso è imposta dalla mancanza di asili nido, di servizi di dopo-scuola e di mense, ma pure dalla poca propensione dei datori di lavoro ad offrire impieghi a tempo parziale, possibilità di job-sharing anche a livello dirigenziale, proposte di telelavoro e, più in generale, a superare gli stereotipi di genere. La conciliabilità tra famiglia e lavoro, oltre che da una migliore ridistribuzione del lavoro, passa infatti anche dall’introduzione del congedo parentale, ma pure dalla scelta professionale, dove resistono proprio gli stereotipi che influenzano la decisione delle giovani e dei giovani.
Anche la partecipazione delle donne alla vita politica deve essere migliorata sensibilmente e le imminenti elezioni federali costituiscono indubbiamente un’ottima occasione per migliorare la situazione. Attualmente infatti, in Consiglio nazionale le donne sono meno del 32 per cento; mentre agli Stati la percentuale scende al 13. E potrebbe scendere ancora in considerazione della rinuncia di diverse parlamentari a ripresentarsi. Anche in Ticino la situazione è decisamente problematica per le donne, che sono solo due fra i dieci componenti della deputazione alle Camere federali; mentre storicamente nessuna donna ticinese è mai stata eletta nel Consiglio degli Stati.
La responsabilità dell’esigua presenza di donne ticinesi in politica è soprattutto dei partiti che, spesso, riducono le donne a semplici alibi, inserendo i loro nomi delle liste elettorali, ma senza offrire loro delle reali possibilità di essere elette. Molte associazioni ed organizzazioni infatti, oltre ad essere presiedute da uomini, preferiscono non sostenere concretamente le candidate. Senza dimenticare che il sempre più marcato inasprimento del dibattito politico e il sempre minore rispetto delle idee degli altri (che spesso sconfina in attacchi personali anche sessisti), non inducono certo le donne a candidarsi.
Ecco perché sono importanti campagne di sensibilizzazione come «Helvetia Chiama» o #IoVotoDonna: perché le competenze ci sono e devono essere valorizzate e soprattutto perché un’equa partecipazione e rappresentanza porta beneficio alla democrazia e alla società intera.
Articolo apparso sul Corriere del Ticino